Nei capitoli 40, 41 e 42 de “Il Milione”, Marco Polo divaga dai suoi resoconti di viaggio riferendo della leggenda di un misterioso Vecchio della Montagna, che da un luogo inaccessibile esercita il dominio su di un gruppo di giovani, aggiogati al suo potere tramite potenti droghe ed utilizzati per delitti politici. E’ questo il plot centrale di “Marco Polo”, l’opera presentata in prima mondiale al Teatro Zajca di Fiume su libretto in tre atti del giovane scrittore milanese Fabio Ceresa e con le musiche di Daniele Zanettovich. Il progetto, voluto da Enrica Guarini e giunto in porto con la partnership del International Artistic and Cultural Center di Roma da lei presieduto, è il compimento di un’idea germinata nel 2004 per un concorso di composizione a Busseto, mai però concretizzatosi per vari motivi. Restava il libretto già pronto: ripresa di recente, l’idea di questo lavoro imperniato sulla figura del navigatore veneziano è andata in porto grazie ad una mecenate friulana – la Contessa Cassis Faraone di Aquileia – che l’ha sostenuta economicamente, a condizione che ci si rivolgesse ad una figura artistica del Friuli-Venezia Giulia; ed è per questo che la scelta è infine caduta sul sessantenne compositore triestino, figlio del violinista Renato Zanettovich membro del celebre Trio di Trieste. E per il privilegio di rappresentarla in prima mondiale, si è fatto avanti il Teatro Nazionale Zajca di Fiume programmandone ben cinque recite: merito singolare invero, per una ‘piccola’ ma attiva città qual è la capitale del Quarnero. La trama di “Marco Polo” prevede che alla fastosa corte del Kubilai Khan, l’imperatore tartaro del quale il veneziano è ascoltato consigliere, una guardia attenti alla vita dell’imperatore, senza riuscirvi: è questi Argon, palesemente smarrito e privo di ogni energia, che desta prima la pietà e poi l’amore di Alania, figlia dell’imperatore. Richiesto del motivo del suo gesto, Argon afferma che un misterioso signore che vive solitario in una nascosta montagna gli aveva ordinato il fatale gesto, eseguito senza tuttavia saperne il perché. Attratto dalla sua storia, Marco si fa accompagnare in quel luogo, dove scopre il Vecchio della Montagna, che si sente e si comporta come un dio, tiene soggiogati e prigionieri dei poveri sventurati: la setta degli ‘assassini’, là dove l’etimo della parola sta appunto nell’uso forzato dell’hashish. Il Vecchio, tramite l’eliminazione di chi ritiene indegno di governare - una sorta di selezione politica esercitata con i suoi involontari sicari - vorrebbe in tal modo determinare i destini del mondo. Il dialogo tra Marco e il Vecchio - cioè tra la filosofica ragionevolezza del primo e l’allucinata follia del secondo – è un dialogo tra sordi; ma almeno il Veneziano riesce a liberare i suoi prigionieri, e scoprire che a corte si cela un traditore. Dopo una finta accusa rivolta ad Alania, riesce a smascherare infatti la perfida e spietata Bolgana, cognata di Kubilai che anela a sostituirlo sul trono. Così il finale dell'opera vede condannare quest’ultima, e trionfare finalmente l'amore di Alania e Argon.
In tutto questo, trovano posto nel libretto di Ceresa «i giochi politici alla corte, lo scontro del bene e del male, l’irruzione della cristianità nelle terre della lontana Cina, le battaglie politiche di quei paesi, l’incontro dei commercianti e delle merci di parti diverse del mondo, la politica e la vita, tutto ciò si trova in questa opera interessante che con la sua musica raffinata intreccia condizioni diverse, culture differenti e varie esperienze musicali», come commenta il zaghebrese Ozren Prohić nelle sue note di regia.
Il tono favolistico della narrazione, e l’atmosfera esotica della corte cinese e della folla dei popolani, descritte nel primo e terzo atto, suggeriscono a Zanettovich sonorità molto colorite e cangianti, ed una ricchezza e varietà timbrica che insieme richiamano non poco l’ultimo Puccini della “Turandot” e l’Alfano di “Sakùntala”; diversamente, l’atto centrale del desolato regno del Vecchio della Montagna– nelle sue rarefatte ed aspre sonorità, e per l’indubbio fascino evocativo - riesce ampiamente debitore dello sperimentalismo novecentesco. Nulla di nuovo al sole, verrebbe da dire, ma questi sono tempi di eclettismo spinto in ogni direzione, dal neo-romanticismo al neo-classicismo (tano per usare termini super abusati). Nondimeno, si tratta di una partitura notevole, che nel suo complesso raggiunge le tre ore quasi di spettacolo; e vuoi per un libretto letterariamente assai riuscito, vuoi per il supporto efficacissimo fornito dalle fantasiose musiche di Zanettovich, “Marco Polo” appare solida e vitale, e che si fa ascoltare e vedere volentieri, molto efficace ed intrigante dal punto di vista teatrale.
Brava nell’eseguirla l’Orchestra dello Zajca, e veramente bravissima la concertatrice, Nada Matoševi
Oreškovi, la quale ha tenuto strette le fila di una partitura ricca di effetti ed eclettica nello stile, ma anche di ardua lettura, con la consueta e sapiente professionalità, e grande senso teatrale. Anche il coro ha messo in campo la consueta preparazione, e perfetta conoscenza dell’italico idioma.
Ozren Prohić è riuscito nell’intento di impostare uno spettacolo vivacissimo, con attenzione al lato spettacolare ma anche all’intensità del singolo gesto, tenendo sempre viva l’attenzione dello spettatore. Lo scenografo fiumano Dalibor Laginja ha pensato una struttura piramidale a gradini sia per la corte del Khan, con in alto un coronamento regale, sia per il palazzo della Montagna, disegnando una scalea coperta da un immenso drappo madreperlaceo, sovrastata da funeree donne-pipistrello sospese in aria. Costumi a firma della francese Ségolène De Witt: coloratissimi ed elaborati per i cortigiani, a delicate tinte pastello per il popolo che attornia la reggia, vestendo con austere tenute nere – simbolo della negazione d’ogni libertà - la mesta schiera dei sudditi del Vecchio.
In un cast senz’altro all’altezza del compito, tutti mi pare abbiano avuto ragione d’una scrittura vocale mai facile, e talora irta di difficoltà: il baritono lettone Valdis Jansons era un Marco vigoroso e toccante nell’espressione, con una linea di canto intensa ed elegante; il tenore sloveno Branko Robinšak un liricissimo e dolente Argon; il basso Siniša Štork un severo e altèro Kubilai-Khan; il soprano bosniaco Vedrana Šimić tratteggiava una delicata e toccante Alania, mentre la nostra Ambra Vespasiani disegnava una veemente Bolgana. La parte del Vecchio, solo recitata, era affidata a Toni Plešić. Molto bene tutto il comprimariato, partendo da Sergej Kiselev e Dario Bercich (i due arguti mercanti) ed Anamarija Knego (un angelo), ed arrivando a Blagoj Nacovski, Christian Faravelli, Fabio Serani, Martin Marić, Marko Fortunato.
Coreografie mosse e piacevoli, con rapidi movimenti acrobatici nella scena che vede una colorita folla mescolarsi intorno al palazzo imperiale, tutte ideate da Maja Marjancić ed eseguite dal Corpo di ballo del teatro fiumano.
Pubblico foltissimo, e applausi generosi rivolti a tutti gli interpreti, compreso il direttore; grandi apprezzamenti anche per Prohić ed i suoi collaboratori.
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